
PISTOIA-PIANA. Nel marzo del 2016, lo Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha classificato il glifosate “probabile cancerogeno per l’uomo (classe 2 A)”. L’effetto ha destato preoccupazione in molti paesi ma nel territorio di Pistoia e delle altre province della Piana, l’abitudine all’uso del potente diserbante è forte e le rinunce che impegnerebbero gli utilizzatori a una revisione delle tecniche colturali sono trascurabili.
Nel 2016 l’Efsa (agenzia europea sicurezza alimentare) ha portato a termine una nuova valutazione: “il glifosate difficilmente può costituire un pericolo di cancerogenicità per l’uomo ma, cautelativamente, propone nuovi livelli di sicurezza che renderanno più severo il controllo dei residui di glifosate negli alimenti”. Tale conclusione è stata utilizzata dalla Commissione europea nel Reg. 2016/1313 e per questo, l’utilizzo dell’erbicida glifosate è autorizzato fino a dicembre 2017, con prescrizioni per gli Stati membri riguardanti la protezione delle acque sotterranee. È grazie alla sua natura chimica che il potente erbicida sarebbe ritenuto “non facilmente” diluibile e quindi non capace di raggiungere con facilità le falde acquifere.
In questo senso sembrano anche essere convergenti le indagini sulle falde acquifere svolte dall’Arpa Toscana, ma che nono certo rassicuranti, vista la capacità della molecola di essere bioaccumulabile, ricordando la diffusione sistemica che successivamente vede traslocato il formulato chimico in ogni altra posizione della pianta, grazie alla via floematica (si pensi ai frutti e gli ortaggi).
Le recenti note divulgative di Arpa, apparse sul periodico specialistico Ecoscienza permettono di fare alcune domande:
1) Lo studio di Arpa Toscana, si limita alla verifica delle “quantità” che sono disperse e poi rinvenute nell’ambiente, ma quando si parlerà di una “indagine sanitaria” ispirata a criteri di tipo scientifico e quindi riconosciuta validamente sul piano della “qualità” dello studio?
2) Usl Centro – che ha competenza sull’argomento – non dispone di alcun report d’indagine sull’area metropolitana, nota come zona di ampia distribuzione del pesticida per le colture vivaistiche.
3) Considerata la tossicità della sostanza e la sua bioaccumulabilità nell’organismo umano, quanto tempo servirà per poter catalogare la sua pericolosità effettiva anche grazie a rilevazioni del “registro tumori”?
In conclusione, non sarebbe dunque il caso di avviare una campagna di osservazione e studio?
[Alessandro Romiti]
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